Vivaldo Baldi ha fatto la storia del trotto italiano: una scia lunghissima di trionfi, iniziata alle Mulina guidando Scrivia.
Corriere Fiorentino,13 Feb 2017, di Sandro Picchi.
Tempo bello e terreno buono nell’ultima domenica di maggio del 1942. Alle Mulina si correva il Premio Toscana, 50 mila lire di monte premi e targa ricordo al vincitore. Si era mosso anche Orsi Mangelli con il suo campione bello e minaccioso che si chiamava Inverno, al tempo in cui i nomi dei cavalli erano semplici e giusti. In sulky a Inverno il rinomato cavalier Vincenzo Antonellini, guida saggia e sicura.
C’era, in corsa, una cavallina interessante - di nome Scrivia - di cui l’autorevole Inverno avrebbe dovuto sbarazzarsi facilmente, ma che un driver di 18 anni portò invece al successo. Quel giovane guidatore si chiamava Vivaldo Baldi e di corse ne avrebbe vinte talmente tante da costringere alla resa anche gli statistici i quali, con gratificante imprecisione, forniscono ancora oggi una cifra vaga e sontuosa: «più di cinquemila», secondo fonti forse generose. Ma è certo che nella soleggiata domenica di guerra, fu quello il primo gran pre- mio vittorioso di Vivaldo Baldi. L’ultimo lo avrebbe catturato cinquanta anni dopo a Trieste, il 2 agosto del 1992 con Muzzi Air.
Vivaldo era nato a Casini, miracolosa terra di cavallai a un paio di chilometri da Quarrata. I Baldi sono un’interminabile stirpe di guidatori, il loro albero genealogico è gigantesco come un baobab tra i cui rami potremmo facilmente sperderci. Figure quasi mitologiche con nomi solenni (Donatello, Omero, Benvenuto, Odoardo) rapidamente convertiti in soprannomi paesani: Cincerina, Succhio, Polvere, Diecione. A volte, anzi quasi sempre, dilagava fra loro spavalda la rivalità. La somma dei Baldi, passati e presenti, sparsi negli ippodromi d’Italia, raggiunge cifre da primato. Il cognome venne in pratica abolito dall’ambiente ippico per manifesta sovrabbondanza di portatori e tutti i Baldi vennero chiamati con il solo nome di battesimo, come gli esponenti di una casa regnante. Vivaldo, Giancarlo, Odoardo, Ubaldo, Marcello, Caruso. Veleggiavano anche i soprannomi. Vivaldo era Diecione, a causa della mancia di dieci centesimi che il babbo gli elargiva a fine giornata, dopo il lavoro in scuderia. Odoardo, che si spostò a Roma, venne invece chiamato Marchesino per la ricercata eleganza del suo abbigliamento. A lui affidò i suoi cavalli anche Lucky Luciano, estradato dagli Usa. Dicono che Luciano indicasse al Marchesino una valigia da cui attingere i dollari del compenso.
Una mattina il ragazzino Vivaldo di 12 anni sgambava, all’ippodromo di Prato, un trottatore di nome Diavolo Bianco. In senso contrario arrivava un cavallo con in sulky il poco esperto proprietario. Lo scontro fu duro e inevitabile, Vivaldo rimase gravemente ferito e il suo volto deformato portò per sempre i segni dell’incidente. Ma le conseguenze sul suo avvenire di guidatore furono straordinarie. Invece di provare paura, Vivaldo non ebbe più paura di nulla. Diventò un grandissimo driver. Guidava con mano sovrana, trasmettendo ai cavalli, fossero campioni o semplicemente un qualunque Pafonzo del Belbo, il suo assoluto potere. Otteneva il meglio da tutti e non sempre conosceva il nome del cavallo che guidava.
Birbone fu il suo primo asso. Era un cavallo moro la cui madre, Tonga, era riuscita durante la guerra a sfuggire ai tedeschi che l’avevano requisita per tradurla in bistecche. Tonga ferita e gravida si fermò davanti a una fattoria, fiutando un’aria amica. Trovò quel che cercava: biada e affetto. A guerra finita il suo proprietario, il ferrarese Oberdan Bisi, seppe rintracciarla dopo aver battuto le campagne alla sua ricerca. Tonga lasciò che la mano conosciuta le accarezzasse il muso. Aveva partorito un vispo puledrino di padre nobile, figlio di Inverno. Bisi chiese che tipo fosse il cavallino. «È un po’ birbone» rispose il fattore. «Allora lo chiameremo così: Birbone».
Con Vivaldo, Birbone vinse molti gran premi, compreso il Lotteria di Agnano, portato a casa per ben tre volte. In corsa lo accompagnava qualche volta anche il buon Agrio con in sediolo Cincerina, il babbo di Vivaldo, che conosceva tutte le astuzie del mestiere, comprese certe provocate rotture, destinate a intralciare gli avversari di Birbone. Dopo aver reso docile e vincente Birbone, che era capriccioso nel box, ma gran professionista in corsa, Vivaldo riuscì in un’impresa ancora più difficile ammaestrando al successo il prode Crevalcore, scuro di mantello e di pensiero.
Erano fatti l’uno per l’altro, Vivaldo e Crevalcore per il semplice fatto che Vivaldo non temeva Crevalcore, mentre Crevalcore non temeva nessuno all’infuori di Vivaldo. Pagine memorabili, i mai dimenticati duelli con il biondo Tornese, il pubblico trionfalmente numeroso, un tifo da calcio e loro due, i cavalli, che, ne siamo certi, si riconoscevano e sapevano. Tempi d’oro di un’ippica fatta più di popolo che di scommesse.
Poi per Vivaldo vennero Delfo, diviso con l’eterno rivale Brighenti, e Borgoplin che alle Mulina nel Premio Etruria sbucò dalla nebbia e dietro non c’era nessuno. Borgoplin era, per povertà di genealogia, il cavallo qualunque, ma quel giorno stabilì il record europeo sui 2060 metri in pista piccola. Piccola sì, ma veloce e indimenticabile e oggi con cattiveria distrutta, quella pista dell’ippodromo fiorentino che non c’è più.
Vivaldo incontrò poi un trottatore americano «comprato a poco», che si chiamava The Last Hurrah ed era perfino troppo docile per lui che ne amministrava le qualità con furbizia. The Last Hurrah sapeva partire forte e, una volta in testa, eseguiva con disciplina le astute richieste di Vivaldo, truccando la sua stessa forza e confondendo i rivali con false andature. Vinse due volte il Lotteria e due volte il Campionato Europeo a Cesena. Dicevano di lui che «sapeva leggere e scrivere».
Vivaldo è rimasto in pista fino a più di 80 anni, un incidente d’auto lo costringeva da molto tempo a guidare - e lo faceva benissimo - con la forza di un solo braccio. È morto nel marzo del 2008, la sua abitazione di Casini è diventata una sorta di museo dove la famiglia custodisce i trofei e i ricordi. Lì vicino c’è una strada: si chiama via Crevalcore. Forse è l’unica in Italia intitolata a un cavallo-
Nella foto il 18enne Vivaldo Baldi con Scrivia.